LA BIENTINA MEDIEVALE TORNA A FAR PARLARE DI SE’ . (di Jacopo Paganelli)

L'Eco del Monte e del Padule 5 Novembre 2012 0
LA BIENTINA MEDIEVALE TORNA A FAR PARLARE DI SE’ . (di Jacopo Paganelli)

Qualche mese fa, in una conferenza stampa allestita nella torre civica, furono presentati gli ottimi risultati dei lavori di restauro alla cinta muraria di Bientina. Contestualmente, fu illustrata l’apprezzabile edizione della carta (in gergo, instrumentum) con cui l’Arcivescovo pisano Ubaldo impose(e non a caso usiamo questo termine) ai bientinesi di abitare nel proprio castellum, fortificazione da ricostruire presso l’attuale centro storico. La tesi dei conferenzieri era chiara: Bientina, nel 1179, era già un Comune formato, provvisto di consoli e di autorità cittadine. Una vera e propria corona d’alloro, insomma; “pendant” perfetto per affermare che proprio quel Comune risultava assai importante. L’Arcivescovo, utilizzando il vincolo feudale della fidelitas (ovvero della fedeltà feudale) avrebbe legato co i bientinesi una sorta di “patto di lealtà”.

 

Il lago Sextum su una carta del XIX secolo

Ascoltata con l’entusiasmo del momento, quella tesi stregò magicamente gli uditori, avvicinando alcuni di loro (tra cui il sottoscritto) ancor più agli studi medievali, e in particolar modo alla nostra Valdera. Sulla scorta dell’invito che il geometra Bandecca (stimolo ed esempio insostituibile per tutti coloro che hanno a cuore le origini e la storia delle nostre terre) rivolse a chi avesse voluto approfondire la questione, abbiamo intrapreso una ricerca sistematica tra le carte coeve, di cui l’archivio arcivescovile di Pisa è ricco: le pergamene con negozi (transazioni economiche, nel nostro caso immobiliari e fondiarie) effettuati sul territorio di Bientina sono nell’ordine delle decine. In questi casi la brevità di esposizione è d’obbligo per non correre il rischio di tediare il lettore con documentazioni e terminologie da addetti ai lavori, anche perché è bene che queste considerazioni dispongano di quanta più risonanza possibile, ben oltre gli spesso sterili dialoghi tra medievisti.

Un’altra carta più recentemente dettagliata

Bientina era, a partire dal 1116 – ovvero dall’atto per cui l’Arcivescovo Ubaldo la acquistò dal Marchese Rabodo – tutt’altro che un organismo autonomo, indipendente, dotato di una propria voce autorevole. Tanto autorevole, era la tesi, da essere investita dal presule Ubaldo della missione di baluardo della pisanità contro le aggressioni straniere. Siamo nel 1120: il prelato compì una ricognizione presso l’attuale Santa Colomba – dov’era il nucleo originario di Bientina, il castrum di Rio Fontana – e ci elenca i diritti di cui dispone sui contadini. Ecco, sembra di essere nella Nottingham del cartone animato di Robin Hood: non solo i poveri rustici dovevano pagare l’affitto al presule pisano per la terra che, lo ricordiamo, dal 1116 era sua; ma dovevano pure versargli una sorta diIrpef (usiamo questi paragoni moderni, che farebbero rabbrividire i medievisti, per far capire meglio le cose), dovutagli perché era lui che lì faceva la parte dello Stato; o meglio, era lo Stato. Solo pochi canoni erano monetizzati: prevalentemente si trattava di oggetti in natura (formaggi, fieno, …). Negli anni successivi, il porporato continuò ad acquistare terre nel territorio bientinese dai pochi proprietari rimasti, per affermare la propria preminenza nella zona. Senonché – e ce lo testimoniano due atti del 1177 – l’abbazia di Sesto, che controllava il padule, rivendicò il potere su quei luoghi di confine, e pure sulle persone che ci abitavano; scoppiò quindi una causa fra l’arcivescovato e l’abbazia, e i giudici dettero ragione alla seconda. L’arcivescovo dovette in sostanza darsi una calmata: c’erano persone e diritti che non appartenevano a lui, bensì ai monaci. È questo il contesto dell’ormai famoso atto del 1179: Ubaldo, che si vide minacciato nella sua influenza e nelle sue entrate, intese spostare il castello più a valle; radunò quindi i bientinesi, probabilmente li costituì in Comune per avere a che fare con un interlocutore unico, affidò l’organismo comunale a persone di sua fiducia – lo sappiamo perché alcuni consoli compaiono altrove come gastaldi (dipendenti del vescovo) – e, nel 1179, fece giurare tutti di essere fedeli alla propria autorità. Niente di più. Le espressioni che compaiono su onore e fedeltà sono ordinarie dopo la legge con cui l’imperatore Corrado II, nel 1037, decise l’ereditarietà dei feudi; e, soprattutto, dobbiamo ricordarci che il Barbarossa – attivo in quegli anni in Italia – stava mirando alla ricomposizione del Regno proprio in chiave feudale. Tanto più che, pochi anni dopo, l’arcivescovo tornò sul patto del 1179, e impose ad alcuni bientinesi – in toni piuttosto severi – di non costruire torri troppo alte, e di abitare dentro le mura del castello. Fra coloro che giurarono, la personalità più eminente risulta un notaio. Evidentemente qualcuno stava cercando di allentare le maglie delle prescrizioni imposte qualche tempo prima; ma bastò una minatio (minaccia) un po’ accesa per far tornare tutti nelle righe. La pisanità non aveva più bisogno di essere difesa…

Jacopo Paganelli

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