QUANDO IL PALIO AMO’ UNA CAMERIERA – di Sergio Baroni

L'Eco del Monte e del Padule 23 Settembre 2014 0
QUANDO IL PALIO AMO’ UNA CAMERIERA – di Sergio Baroni

QUANDO IL PALIO AMO’ UNA CAMERIERA

(SERGIO BARONI)

 Il momento peggiore era l’ultima mezz’ora, quando era lei a chiudere il locale dove lavorava, dopo aver spazzato e dato il cencio per terra, con la brace che ritmava gli ultimi scoppiettii nel forno della pizza.

Poi, da ultimo, c’era da pulire la latrina: entrata nella toilette le prendeva immanacbilmente un cerchio alla testa, ed allora in quel momento, sola con le pareti che le se stringevano addosso, tutte le frustrazioni le pesavano sulle spalle, in un fardello troppo gravoso per i suoi vent’anni non ancora compiuti.

Il viaggio da Pontedera a Bientina era quasi tutta la depressione che si portava dietro da qualche mese, d’altronde “chi è causa del suo mal pianga” se’ stessa, si ripeteva a parziale consolazione.

Ad Elisa, cameriera in una pizzeria senza pretese di Pontedera, ogni volta che rincasava dopo il turno di lavoro scorreva davanti l’intera serata trascorsa tra quelle quattro mura , a servire anonime pietanze ad ancor più anonimi clienti, fantasticando sulle peripezie altrui e le fantasmagoriche vite che adorava inventare, perché la sua già da un po’ non le piaceva più.

Come un filmato, il sabato sera 19 Luglio si dipanava davanti a lei come un gomitolo di lana, mentre passato Montecchio, le luci giallognole della zona industriale la riaccompagnavano alla sua casa di Bientina.

La donna del primo tavolo appariscente e volgare alla prima occhiata si chiamava – le era sembrato di aver capito dai frammenti di conversazione rubati – Morena o Lorena; aveva i capelli di un nero corvino da tintura indiana e le labbra di un rosso melograno come laccate di smalto per unghie.

L’uomo seduto di fronte a lei le aveva confessato a un certo punto quanto fosse bella ed eccitante (!!!), un apprezzamento che detto da lui, alto, grossol e con due occhi dolci ede ingenui da ragazzone di campagna, lasciavano intuire senza fallo le intenzioni di entrambi: lui si chiamava Denis, e lei si era preparata a puntino per l’appuntamento, con tanto di minigonna nera e tacchi alti.

Al tavolo vicino al bancone del bar due giovani, Alda e Giuseppe. Lui si guardava attorno aspettando un gesto di assenso, lei dava l’impressione di essere già pentita, e si guardava intorno un po’ nervosetta a cercare un aiuto insperato. A un certo punto Giuseppe l’aveva rimessa in riga con una certa energia, come dire “i patti sono patti, e non puoi tirarti indietro sul più bello”…

E così la serata scorreva davanti agli occhi di Elisa mentre tornava a Bientina, per lei non c’era stata nessuna cena della vigilia del palio, ma solo un sabato sera di lavoro come tanti altri.

Giunta a casa in quella Via Polidori dove abitava da qualche mese da sola con la figlia, prese le gocce per dormire e fu tutta una tirata fino al mattino alle nove, quando suonò il campanello della porta.

Era Filippo, quel bravo ragazzo che non riusciva già da un po’ ad andare oltre l’amicizia , nonostante ce la mettesse proprio tutta.

Fu allora che ad Elisa venne a galla il ricordo di quando lei e Filippo, compagni di scuola media, presero a frequentare all’età di 10/11 anni la casa di “Isola” che si erge come un piccolo castello abbandonato nel mezzo del padule, luogo fra l’ideale e il reale che tutti i bientinesi dediti alla caccia e alla ricerca dei funghi pioppini conoscono assai bene.

Lei e Filippo si mettevano accanto al camino annerito, e seduti sopra un’asse simulavano una fredda serata d’inverno. Si erano immedesimati in un babbo e una mamma di tanto tempo fa, ed Elisa portò i suoi fratellini e preparò dei giacigli per loro in una stanza; nell’altra un giaciglio, con la paglia e le erbe secche, più grande per lei e Filippo. Dissero che era sera e chiusero gli occhi, le ginocchia di Filippo ed Elisa si sfioravano: era il gioco dei babbi, delle mamme e dei figli. Elisa e Filippo già sapevano che non erano le cicogne a portare i bambini intuendo che c’era un qualcosa, un miracolo che nasceva da qualcosa di misterioso, da un unione di corpi che tramutava in magia qualcosa di concreto.

Ma mancavano dei tasselli a quel mosaico, capivano che tutto doveva essere condito certamente da un alone di piacere e di dolore, intravedevano anche che i misteri si sarebbero dissolti di lì a poco, capivano che la vita gli avrebbe presentato una serie di scoperte entro breve. Ed intuivano anche che il piacere, in quel nuovo universo che i grandi chiamavono “essere adulti”, avrebbe soverchiato di gran lunga il dolore.

 

Si frequentavano in paese da normali amici, nella stessa classe delle scuole medie, e poi spesso, con l’aria tiepida che arrivava in primavera, andavano a sciogliersi nelle penombre della casa di “Isola”, negli odori di muffe e di fieno.

Le vecchie ragnatele rimanevano distrattamente per ore sulle loro membra appena tornite, tolte poi da una mamma attenta, una volta rientrati a casa, nell’intercalare frettoloso delle sue faccende.

Poi Filippo ed Elisa presero scuole diverse, e le amicizie differenti li separarono durante il corso della adolescenza.

Elisa tornò nella casa di isola un giorno con Lorenzo, un amico conosciuto alle superiori, e fu proprio lei ad invitarlo a svoltare per quella piccola strada vicinale mentre percorrevano lentamente la bientinese.

Voleva tornare a visitare quel luogo della sua adolescenza, ma oramai era una ragazza, ed i giochi di “babbo e mamma” avevano fatto posto ai corteggiamenti che gli si proponevano e che lei, se non proprio amministrava, quantomeno sterzava con l’abilità di una donna quale ormai era.

Le linfe che le circolavano nelle membra e nell’intelletto si erano perfettamente armonizzate con un corpo perfettamente sbocciato, ed in quel pomeriggio di Maggio lei e Lorenzo si affacciarono alla finestra di una torretta della casa di Isola, come nei tempi lontani e lunghi dell’infanzia, ammirando l’espandersi della primavera in quella quieta plaga che si stendeva innanzi a loro.

Lorenzo si era portato un libro, “La recherche du temps perdue”, e prese a leggere un brano mentre ancora erano affacciati alla finestra della torretta, gomito a gomito:

Quando il tempo è sereno si può vedere fino a Verneuil. Soprattutto si abbracciano in un sol tempo con gli occhi cose che d’abitudine è impossibile vedere se non l’una senza l’altra, come il corso della Vivonne e i fossati di Saint-Assise-lès-Combray, dai quali è divisa da una cortina d’alberi alti, o ancora come i vari canali di Jouy-le-Vicomte.”

Elisa sovrappose le descrizioni del romanzo con le immagini della sua vista, il canale Rogio scorreva a pochi metri, con il fosso di confine in lontananza. Elisa fu distratta solamente dal volo di un’anatra che a distanza macchiò l’orizzonte, mentre le parole di Lorenzo erano un sottofondo ideale alla spontanea passione per la letteratura di Elisa ed alla forse premeditata strategia di seduzione di Lorenzo, ma da un’alchimia perfetta delle due cose, da una miscellanea esplosiva che entrò nelle orecchie di Elisa, fatale suono di un flauto magico che si propagò insieme ai profumi entrati dalla finestra, densi come il miele e che la verzura primaverile emanava nel padule: la sventurata rispose. E ora quei ricordi della casa di isola , mentre il paese era invaso dalle moltitudini festose del palio, gli si affastellavano uno sopra l’altro, con Filippo attore iniziale e finale, come a chiudere un cerchio.

Questa è una storia minore, uno dei tanti rivoli che affluiscono nel mare magnum del palio; qui non si parla di corse, di palii, di prestazioni, di fantini, ma di un amore che si conclude dopo averne intravisto il prologo anni fa nella casa di Isola .

Se volete parlare di corse, di prestazioni, ma ci dobbiamo spostare nel tempo a qualche settimana fa.

Siamo all’alba di un sabato mattina di Maggio e percorro la Via Sarzanese, davanti a me c’è una Clio piena zeppa di giovani, vanno a Siena a trattare con un fantino, sono usciti dalla discoteca, hanno bivaccato, senza neanche andare a casa a dormire. Alessio dorme, la testa si appoggia a quella di Guglielmo, è andata male con quella di Buti, ci sperava e ora non ha tanta voglia di parlare; ma parlano gli altri e ne dicono tante, sui cavalli, sulle ragazze, e su quella di Buti che ha dato buca ad Alessio; l’aria è densa nell’abitacolo, sa di notte insonne, io seguo quella clio, auto progettata anni fa dall’ingegner Lacroix, ne vedo solo il lunotto, la parte posteriore, ma capisco che è piena di giovani e li invidio perché odio il tempo che passa, una strada a senso unico .

Il palio è un paese che cambia abito e come una ballerina scende in pista, danza, e si eccita perché piace e si piace. E’ un amore dato cento a uno, nato anni fa in un pagliericcio della casa di Isola nel gioco dei babbi e delle mamme che vince in un rincorrersi dei ricordi. E’ una Renault Clio che percorre velocemente la Sarzanese all’alba di un sabato mattina di Maggio, ed io che ne vedo solo il lunotto, i fari posteriori, e quelle curve del cofano progettate dall’ing. Lacroix anni fa.

L’ingegnere in quel momento se ne dorme beato ad un migliaio di chilometri da Bientina, in un quartiere residenziale di Dijon. Partirà tra poche ore, se ne va in Borgogna dove ha acquistato una fattoria con annesso un vigneto per passare il week end. Se la passa bene l’ingergner Lacroix.

Ma dovrebbe spiegare a me, Sergio Baroni, assicuratore senza vigneti in Borgogna, perché io che seguivo quella Clio ed intravendendone solo il lunotto, la marmitta, i fari posteriori, e le curve della carrozzeria, riuscivo a capire con malinconia, che era stipata, piena zeppa di gioventù. 

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