TRAMONTO SUL PADULE (CRISTINA SCOMPARIN)

L'Eco del Monte e del Padule 15 Maggio 2016 0
TRAMONTO SUL PADULE (CRISTINA SCOMPARIN)

Lungo il sentiero che conduce al bosco di Tanali un susseguirsi di passi regolari piega le frasche a terra, mentre una debole nebbia indugia pigra sul silenzio del padule.

E’ una tranquilla sera d’aprile, in lontananza le prime luci dorate dei lampioni rischiarano appena l’orizzonte e il cuore di Mario che passeggia solo.

Mario si sente libero e appagato, finalmente padrone del suo tempo. Sollevato dalle fatiche del lavoro e dagli impicci sentimentali è un uomo nuovo che nella semplicità dei suoi passi e nella ritualità di quel percorso ritrova finalmente sé stesso.

Le piogge burrascose della settimana precedente hanno lasciato tracce significative, allagato le numerose buche nel terreno e coperto alla vista alcuni dei tanti ciottoli.

Deve esserci una festa da qualche parte – pensa Mario tra sé camminando –  una musica lontana lo accompagna nel suo incedere solitario nella natura, gli fa compagnia solamente un giovane leprotto guardingo sul ciglio della sterrata.

Si siede a terra per godersi quei magici momenti quando il cielo arancione sfuma sino a trasformarsi nell’etereo violetto rosato, quegli attimi in cui tutto quanto intorno cala di un tono, ombre e rumori, persino i pensieri e le incognite irrisolte che affiorano dal passato.

Lentamente si insinua nell’aria una piacevole brezza che separa tra loro quegli strani ciuffi di nebbia attorno a lui, adesso intento a fissare un orizzonte indefinito in cui si legano assieme cielo e terra.

Tutto è in perfetta armonia: il padule fermo e scuro, le alte frasche dei faggi che danzano complici tra loro, la giovane lepre che ha appena finito di cenare.

Il suggestivo mutare della natura che va facendosi silente sembra accentuare i rumori della lontana festa bientinese: incalza un’orchestrina, poi risate e un susseguirsi di applausi gioiosi che sembrano quasi rivolti a lui, lì seduto in contemplazione.

Il pensiero scivola inevitabilmente a quella sagra di quattro anni fa, quando il vecchio Gigi riempì il bicchiere di vino rosso e raccontò diversi aneddoti nel suo tono confidenzialmente personale.

A Mario sembra di essere ancora lì ad ascoltarlo, seduto al tavolo tra la moltitudine giocosa di quella calda serata di fine agosto, tanto da rivivere tutto quanto: il legno della panca su cui siede, il profumo della brace scoppiettante che gli uomini alimentano con scrupolo quasi religioso, Isabella che ondeggia sorridente nel suo brioso vestitino arancione, il cielo stellato sopra di lui, la vita frenetica appena lasciata alle spalle.

Chi lo avrebbe mai detto che la vita può cominciare dopo i sessant’anni?

Quante cose si era perso nel corso della sua indaffarata esistenza, intento a far carriera in un susseguirsi di giornate fatte di numeri e telefonate,  tutte stressanti e indistinguibili l’una dall’altra, fuggite via come lampi d’un temporale di fine estate. Senza parlare di quella triste e squallida pseudo relazione con Angela, la segretaria, patetica quarantenne che si era concessa il lusso di flirtarecon il “capo” solo per tenersi stretto il posto di lavoro.

Un matrimonio combinato, mai decollato e fallito con Daniela, pisana D.O.C.tipicamente borghese, introversa, sospettosa e lagnosa.

Gianni, l’unico figlio di quel deludente mènagesi era da tempo trasferito a San Franciscoper far carriera nel campo dell’informatica, e lo chiamava solo per gli auguri in occasione delle feste comandate.

Aveva viaggiato molto e letto ancor di più, ma niente mai lo aveva attratto e suggestionato così tanto come la verità di quel padule silenzioso, ospite della semplice e solitaria campagna che lo conteneva.

Vorrei essere come te!– aveva confidato al vecchio in quella sera lontana, anche se più che una confidenza si era trattato di una vera e propria fuga di parole, autonoma e inaspettata conseguenza del quarto bicchiere di rosso sincero.

Apparentemente non c’era nulla da invidiare al caro Gigi, contadino bientinese che viveva da solo in un fatiscente terra-tetto nella campagna, appassionato conoscitore di piante e insetti con i quali spesso s’intratteneva in fervide discussioni. Adorava la buona cucina e il vino, si appassionava per le briscole pomeridiane al circolo con i paesani e il sette bello a scopa lo chiamava il bimbo.

Ma soprattutto amava la libertà e la verità che chiamava le “mie sorelle indispensabili”.

Ripercorrendo le stesse strade ora tanto care a Mario, rincasando dopo la serata al “circolino” e sapendo di aver perso a carte non per sfortuna ma per quella smemoratezza incipiente sintomo dell’età che avanzava, Gigi borbottava tra sé e sè, maledicendo la mala sorte e gli sfottò dei compari, ma se ne dimenticava subito e si intratteneva a ragionare con le sue adorate piantine staccandone le foglie ingiallite per poi coricarsi in pace col mondo.

Era morto nel 2012, tranquillo nella sua camera da letto. Sul comodino i resti della tisana al tiglio nella tazza smaltata, il libro di botanica illustrato che gli aveva regalato Mario lo stesso inverno, un fazzoletto piegato con metodo, e due stampe appese a una parete di fronte alla finestra che si affacciava sull’aia in cemento e mattoncini dove proliferava la sua collezione.

Una quantità di erbe aromatiche cresceva rigogliosa su un lato della casa, ed un’ancor più ricca varietà di fiori sbocciava in primavera sul fronte opposto; all’ingresso due coppi in coccio ospitavano delle piante di pomodorini che Gigi incannava con maestria antica.

Dalla finestra di camera si vedeva una generosa moltitudine di lillà che quasi toccava a terra: – Il velo della sposa spirituale “ – lo battezzava Gigi ridacchiando,

– Eh beh… il bianco ormai non è più di moda… – rispondeva Mario assecondandolo.

Poi sedevano e giocavano a carte. Gigi non s’era mai sposato.

Raccontami d’un tuo viaggio… – chiedeva Gigi – dimmi della volta in barca alle isole Chagos ! – era quello che lo aveva appassionato di più.

Si inebriava della descrizione dei mari e dell’oceano che non aveva mai visto, dei modeni pirati che assalivano le barche dei turisti, delle meraviglie sommerse dei fondali e dell’ospitalità degli isolani che arrostivano in riva del mare le bistecche di tonno per gli americanos, della tartaruga solitaria che una volta aveva nuotato a fianco dell’amico.

Mario ricominciava sempre daccapo, arricchendo ogni volta il racconto di qualche nota suggestiva, poi lo faceva vincere a carte per il puro piacere di vederlo ridere a crepapelle.

Un pomeriggio, poco prima di quell’ultimo inverno, quasi non lo aveva riconosciuto. Fu allora che iniziarono ad apparire i primi veri e propri vuoti di memoria preoccupanti che lo bloccavano sulla soglia di casa, quando perplesso gli chiese:

– E tu chi sei ? –

– Sono Mario, quello venuto dalla città… – gli rispose entrando. Poi salutò le piante dell’amico e incominciarono a chiacchierare come se nulla fosse accaduto.

– Isabella è con te? – chiese ancora.

No Gigi, credo che passerò a trovarla stasera –

– Stasera quand’è buio? Ora è buio presto… – fece preoccupato…

La musica lontana si è fermata e gli alti faggi hanno smesso di ondeggiare, tutto intorno pare inghiottito dall’oscurità, le ombre e i rumori sono svaniti, solo i lampioni di Bientina spiccano nitidi e dorati nel cielo.

L’aria è diventata piuttosto fredda e la nebbia completamente scomparsa, il padule non si distingue più dai chiari, la giovane lepre è probabilmente rientrata nella sua dimora.

Mario si alza e riprende il suo cammino.

Cristina Scomparin

 

Leave A Response »