APRO LA FINESTRA – di Alessia Santosuosso

L'Eco del Monte e del Padule 11 Giugno 2016 0
APRO LA FINESTRA – di Alessia Santosuosso

APRO LA FINESTRA

(Alessia Santosuosso)

Apro la finestra e guardo fuori, non ce la faccio più a uscire.

Non riconosco più nulla qui, dove prima c’erano tutti campi, ora ci sono tutte case… e nemmeno ti scambi il saluto con i vicini.

Vedo le bimbe che giocano al sole, che gioia che mi fa.

La nostra è una famiglia fortunata perché viviamo ancora tutti insieme, proprio come una volta.

Essere Nonno è l’unica cosa che mi ripaga di tutti gli sforzi che ho fatto nella vita.

A volte, nel pomeriggio, vedo Martina, la mia nipotina più grande di otto anni, che si mette sul divano a parlare dei primi amori con la sua nonna; allora mia moglie inizia a raccontare di quando lei aveva dodici anni e io sedici. Già “si faceva all’amore”, eravamo vicini di casa…

Io continuo imperterrito a pensare alle mie cose facendo finta di non ascoltare, ma mi nasce sempre un sorriso sulle labbra quando sento le femmine che parlano dell’amore, hanno la voce sognante e lo sguardo romantico mentre parlano (anche se non le vedo, SO CHE E’ COSI’…) e parlano e parlano… magari con gli occhi lucidi, ma sorridenti, pieni di bei ricordi.

Mia moglie dice sempre le stesse cose, ma a Martina piace ascoltarla, come fosse la prima volta, come quando le donne guardano lo stesso film sdolcinato e piangono allo stesso punto tutte le volte.

Aveva dei ricciolini neri neri, era bello, alto, magro, e mi veniva a bussa’ alla finestrella di camera. ci si parlava da lì, di nascosto; i miei genitori non volevano che mi facesse la corte perché io ero figlia unica, e dicevano che ero viziata perché non ci mancava nulla. Ero abituata a mangiare la carne tutti i giorni, mi piaceva tanto il piccioncino, che a quei tempi era un lusso… Invece la famiglia del tu’ nonno eran undici persone, nove figlioli, e a volte mangiavano pane e cipolla. Ma a me non m’importava, mi garbava tanto il mi’ Beppe, e tutti i giorni andavo a casa sua con la scusa di aiutare Maria, la su’ sorella più grande, cosi ero diventata di casa. Poi quando avevo diciannove anni ci si sposò…”

Ne è passato di tempo!” penso io tra me e me…

Ho lavorato tanto, non mi ha mai spaventato faticare, ho fatto anche la guerra.

Allora non era come oggi, il “soldato” si faceva per diciotto mesi, era dura, e non si vedeva l’ora di finire.

Quando scoppiò la guerra ci richiamarono alle armi, ed allora sì che fu difficile, dovemmo lasciare la casa, la famiglia, tutto ciò che avevamo, senza sapere se saremo tornati.

Ci addestravamo senza conoscere la data in cui saremmo partiti, sperando che quel giorno non arrivasse mai, ma una sera qualcuno ci disse che nei prossimi giorni saremo salpati verso l’Africa. Cosi decidemmo di scappare dalla caserma per poter andare a casa a salutare i nostri cari prima di partire.

Non era stata una vera “soffiata”, qualcuno che sapeva a cosa saremo andati incontro ci volle fare un regalo. Così corsi a casa per salutare Lucia, e passammo insieme quell’ultima notte.

Lei rimase incinta. Il cielo pieno di stelle ci portò in dono una bambina che avrei visto per la prima volta solo molto tempo dopo…

Quando tornai a casa mia figlia aveva già sei anni e non mi conosceva affatto. Era cresciuta coccolata dai nonni, cosi quando io la sgridavo, mi diceva che potevo anche tornare da dove ero venuto!

 

In Africa sparavo con il cannone, combattendo per conquistare Alessandria d’ Egitto, ma ad Alessandria non ci arrivammo mai, ci presero prigionieri gli inglesi e ci portarono in Sud Africa.

Martina mi dice che sul libro di Storia quella battaglia si chiama El Alamein, ma io quando ero lì non sapevo che a tutto quello strazio si potesse dare un nome.

Noi la chiamavamo GUERRA, e ci sembrava che quella parola dicesse già tutto.

Quando arrivammo in Sud Africa ci imposero di rinnegare il fascismo altrimenti ci avrebbero giustiziati, e la scelta non fu molto difficile, per me come per molti compatrioti. Eravamo soldati solo perché eravamo stati costretti, solo alcuni sostenitori del regime decisero che la morte fosse un destino migliore della sottomissione al nemico.

Sono stato prigioniero sei anni.

Ci facevano lavorare nei campi, ed ogni giorno ci davano da mangiare un po’di riso.

Adesso, quando siamo a tavola ed io mangio la pasta mentre a tutti tocca il riso, Martina mi fa:

– Nonno, perché te non mangi il riso ? Non ti piace ? –

Allora io sto zitto e non riuscendo a risponderle, ma lei insiste, vuole sempre sapere tutto. E’ mia figlia, la sua mamma, che le spiega, e lei poverina diventa triste.

Poi qualcuno gli dice che una volta sapevo anche l’inglese, e lei mi chiede stupìta:

– Nonno, nonno… dimmi qualcosa in inglese ! –  

Io non vorrei rispondere, ma alla fine la piccola ce la fa a convincermi:

– “Uòter” che significa acqua – dico – “Brèd”, che vuol dire pane, e “spùn”, cucchiaio… –

Martina vorrebbe che andassi avanti, ma mi giustifico dicendo che sono passati tanti anni, e non mi ricordo più niente… “Forse” mi dico “nemmeno allora ne sapevo molte di più !”

Lucia racconta che all’inizio ricevette qualche mia lettera, ma poi non avendo più nessuna notizia, si convinse che fossi morto.

Ci liberarono l’anno dopo la fine della guerra, nel 1946.

Al ritorno a casa volevo solo dimenticare, non avevo voglia di parlare di quei terribili anni di prigionia. Nell’aria si avvertiva il silenzio, ma anche la tanta voglia di ripartire. Ci demmo da fare per ricostruire tutto, più che altro per iniziare nuovamente a vivere.


Siamo sempre stati di casa in “padule”, dei contadini che qualche volta dovevano lavorare anche di domenica.

Quando era festa ci si ricambiava coi vestiti buoni e andavamo in paese a “fa’ du’ chiacchiere”, magari al circolo a fare una partitina a carte.

Ma ora è tutto finito, a Bientina ci vado solo per andare dal dottore.

Apro la finestra e guardo fuori il sole che tramonta con dentro i miei ricordi.

Chiamo le mie bimbe per farle rientrare in casa: – Martina, Alessia, è pronta la cena ! –

– Eccoci nonno, arriviamo ! – . E il loro sorriso allontana la mia fine.

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