“UN’ANIMA IN PACE” di Francesco De Victoriis

L'Eco del Monte e del Padule 10 Luglio 2016 1
“UN’ANIMA IN PACE”  di Francesco De Victoriis

I DUE CUCCIOLI DI CINGHIALE si affacciarono timidamente dalla macchia, grufolando curiosi tra le sterpaglie, probabilmente in cerca di qualcosa da buttar giù. Non appena si accorsero di noi schivarono all’unisono i cani, balzando oltre la strada sterrata in una sorta di selvaggia e impazzita coreografia.

SCOMPARVERO A VALLE tra ginestre e lentischi, imboccando la direzione del golfo e furono in un attimo sull’arenile, ratti come baleni, acclamati dal giovanile entusiasmo dei bambini e dai gridolini isterici e scandalizzati delle signore truccate e distinte sdraiate sotto il sole come gechi a riposo. Osservandoli con più di calma, i due piccoli animaletti pelosi non parevano affatto cinghialotti comuni, ma inusitati ibridi tra maialini domestici e tassi, o ghiottoni, o lonze. Curiosi incroci di specie diversissime tra loro, ovviamente impossibili in natura.

EPPURE, NE’ TROPPO CHIARI ne’ troppo scuri, dal pelo irto e cespuglioso ma invitante al tatto, con strisce sul manto appena accenate a dimostrare la prossima fine dello svezzamento e l’arrivo imminente della maturità, avevano un aria oltremodo sperduta quei due, affatto intimorita e persino spavalda, anche se catapultati in un bordello di mondo costruito a misura di quell’uomo anelante a cacciarlo, ma soprattutto invaso dalle sue petulanti compagne sulla spaiggia, pronte ad ornare i convivi mondani con un “non so che” di sanguigni e verace.

I GRUGNI DEI DUE cuccioli lasciavano appena trasparire un’angoscia perplessa dietro lo sguardo miope di quegli occhietti troppo piccoli per mettere a fuoco lo spazio di fronte a loro. Si rituffarrono allora tra arbusti e roveti, con la stessa rapidità di quando erano apparsi e lasciandoci nel dubbio di aver assistito ad un’insolubule bizzarrìa, un incrocio di razze mai documentato sinora a soli due passi dalla civiltà, in un pezzo di mondo di millenaria cultura e tradizione sul retro del pittoresco e sognante golfo di Baratti.

I DUE CAGNONI che ci portavamo sempre appresso giravano in tondo latrando impazziti, così decidemmo d’impulso di arrampicarci lungo il sentiero che risale il cucuzzolo. In cima alla vetta il forte di Populonia vegliava da secoli su natanti e marinai, gettando nell’azzurro del mare e del cielo lo sguardo sul massiccio profilo dell’Elba, fino all’isola di Capraia ed ancora più in là.

Nelle mattinate cristalline di tramontana gli osservatori più acuti potevano scorgere sulle pendici del monte Capanne il santuario della Madonna del Monte, con il suo fardello di storia dovuto al soggiorno di Napoleone nell’annesso romitorio nel corso dei dieci mesi d’esilio, prima dei 100 giorni, prima della fatale, ferale e definitiva disfatta di Waterloo. Frequente, capitava di vedere anche Montecristo ancor custode del leggendario tesoro di Edmond Dantès, la Gorgona con la sua colonia penale e spaziare anche al di là fino alla Corsica. Atavico testimone di battaglie, vittorie e sconfitte tra uomini e il mare, quel forte. Monito eterno dello scontro tra uomo e natura che per millenni ci ha visti dominati.

BEATI I DUE CANI, ALLORA. Fiduciosi d’incrociare ancora il percorso degli intrusi in quell’avamposto di civiltà. Io ero certo che ne avevamo ormai perso ogni traccia. Ed invece eccoli là, sbucare nuovamente dal fitto del bosco coi loro musetti, come a sfidarci in un invito ad una scampagnata di piacere. Avevamo rinunciato al tuffo coi cani nelle acque del golfo ormai, ed Alice lanciò il guanto suggerendo: “Vai avanti te, tu che dici sempre che degli animali selvatici non dobbiamo aver paura”.

PROVAI A MUOVERE pochi passi nella loro direzione, ma scomparvero un’altra volta, comparendo pochi istanti dopo ben visibili sulla punta di un masso che svettava dagli arbusti e dai pinacchiotti. Emisero una sorta di canto dolente mascherato da grugnito, un verso sinistro ancor più lugubre nella sua semplicità, eseguito in inconsueto concerto.

CHISSA’ DA QUALE FIABA di Esopo eran saltati fuori i due cuccioli che ci sfidavano dall’alto. Proseguirono il loro lamento fino a quando il più anziano dei cani mosse verso il masso, inducendone la ritirata tra i cespugli. Bracco tornò deluso ai miei piedi, seguito da Baldo che preferì invece la snellezza dei polpacci torniti della padrona. Entrambi sembravano assai delusi dal gioco interrotto di un nascondino fuori stagione.

I COLORI DEL CREPUSCOLO si avviavano a cangiare il pomeriggio in una sera incantata, e discendendo prudenti verso il golfo tra pietre e radici affioranti ci accolse il chicchiericcio di alcune signore colpite dall’inconsueto miraggio: “Poveri cuccioli, così piccolini, indifesi e soli al mondo… Magari cercavano solo la mamma, e sono stati impauriti da quei brutti cagnacci !” esclamò una tipa rivolgendosi a un’amica in maniera calcolata, come a voler cogliere nel segno senza colpo ferire. La sua “mise” trasudava un’aria d’avanguardia cittadina, abbronzata ma non bruciata dal sole, una linea invidiabile nonostante i cinquant’anni imminenti. Se ne stava immobile, avvolta in un pareo griffato che avrebbe fatto la fortuna della vecchia Isolina (una delle poche residenti nel golfo, perennemente indaffarata nel raccogliere e seminare poponi, zucchine e frutti del campo). Il pareo, solitaria copertura delle grazie eccetto un perizoma strategico color carne, stava disinvoltamente allacciato sui seni ben sodi ed eretti, svelando le ancora invidiabili forme della proprietaria di tutto quel ben di Dio.

CE L’AVEVANO CON NOI, era palese. Con me, con Alice, con Bracco e con Baldo, colpevoli, i poveretti, di aver dato libero sfogo al loro istinto irrefrenabile e pazzerellone. I “cagnacci” in questione non sarebbero stati in grado di nuocere alle due inusitate apparizioni più di quanto il sottoscritto di finire nella cinquina dei Nobel per la fisica. “Le bestie non hanno colpa” ribadì la stagionata top-model rivolta alla degna compare dirimpetto, caratterizzata costei dall’aria derelitta di chi prende una irrinunciabile, sollazzevole vacanza a scrocco come la peggiore delle torture.

Sono i padroni che andrebbero educati. In primo luogo dovrebbero tenerli al guinzaglio” affondò il colpo la tettona guardandoci di sottecchi.

E’ proprio vero cara Brigitte” rispose la dolente compagna “A Milano si fa lo slalom tra le pupù dei cani, sia detto con rispetto parlando – improvvisò un ghigno schifato come se avesse appena pestato una merda a piedi scalzi – Nessuno che si sogni di usare cassetta e scopino, nessuno che si preoccupi di pulire nemmeno le carte gettate per terra, ed ora iniziano ad arrivare anche gli africani, chissà dove andremo a finire…” concluse spegnendo la cicca nella sabbia.

LE DUE ARISTOCRATICHE villeggianti erano state forse turbate dal moto di compassione per i due cuccioli di specie indefinita, apparsi in quel sonnolento pomeriggio di fine agosto come un fulmine a ciel sereno, ma per me l’unica reazione scatenata da quel vacuo dialogare in punta di lingua, fu un’istantanea e irrefrenabile stizza nei confronti di chi veniva a farsi gli affari degli altri fuori da casa propria insozzando le nostre spiagge. Le due “sciure”, spaparanzate al sole in bella posa, in definitiva mi erano rimaste immediatamente e pesantemente sul cazzo.

RICHIAMAMMO I CANI al nostro diretto controllo. Alice ed io incrociammo gli sguardi repentini, accordandoci tacitamente su un momentaneo break nel programma del nostro romantico week–end in Maremma: non saremmo andati direttamente verso casa, facendo tappa magari alle terme di Venturina per un bagno caldo e rinvigorente nelle acque sulfuree. Difficile pensar di amoreggiare e trascorrere due giornate isolati dal mondo su una “nuvoletta rosa”, noi due soli con l’unica e discreta compagnia dei nostri fedeli amici, con i coglioni fumanti che giravano all’impazzata, senza possibilità alcuna di sfogare perniciosamente il proprio malumore sul primo venuto. Sarebbe finita, probabilmente, a rinfacciarci ogni più piccola inezia, a rimproverarci vicendevolmente la difettosa cottura della pastasciuttata di mezzanotte, la salatura del sugo, la nettezza dei posaceneri nell’auto, il mancato scarico del WC o la tavoletta non sollevata…

MEGLIO PRENDERCI UNA PAUSA per placare i bollenti spiriti, c’intendemmo con quel complice sguardo. Prendemmo nuovamente la via verso l’alto del poggio tornando sui nostri passi, in direzione del percorso tra lecci e pini che porta fino al monastero abbandonato di San Quirico.

Bastarono poche centinaia di metri perchè un’atmosfera sognante ma spettrale ci avvolgesse come una cappa, man mano che camminavamo lenti alle vestigia medievali un tempo rifugio di eremiti e pellegrini. Continuammo ad inoltrarci nella vegetazione mortalmente ferita dall’incendio dell’anno precedente senza renderci conto consciamente del mutuare dell’aria, rimirando attoniti lo scempio impunito, dove tra gli scheletri immoti di lecci, querce e corbezzoli che ferivano gli occhi, la vista era a malapena sollevata dalla rigogliosa rinascita di ginestre e ciclamini, un chiaro segnale di una vigoria da parte della Natura contro cui anche il più sciagurato dei crimini avrebbe dovuto fare i conti.

In poco più di mezz’ora arrivammo ai resti del monastero benedettino risalenti al IX secolo dopo Cristo, un’epoca nella quale ai colpevoli in flagranza di reato non erano concessi appelli, cinchischiamenti tra giurie e collegi di difesa ed altri sotterfugi legali, col risultato di minare la fiducia negli ordinamenti e sfidare le leggi della società.

TUTTORA MI SCOPRO TALVOLTA “HOMO MEDIEVALE”, pervaso da un sacro rispetto per le regole imposte “dall’Alto” quanto desideroso di poche e basilari certezze: un mutuo rispetto del prossimo, l’amore dei miei cari, il portentoso miracolo del sole che ogni mattina ammanta l’umanità tutta del suo calore.

ARRANCAVO CON ALICE dietro al giocoso incedere di Bracco e Baldo, superando i cespugli di cisti che ci sferzavano i polpacci strappandoci qualche risata e non poche oscenità. Scartammo l’idea di proseguire in direzione sud per quel saliscendi che giunge alle due asperità pomposamente chiamate “monte” Pecorino e “monte “Massoncello” – due vette di meno di 300 metri in realtà. Si erano ormai fatto pomeriggio inoltrato, ma gli obliqui raggi del sole mordevano ancora spietati. I cani sbuffanti nella canicola di fine estate furono il nostro alibi, un provvidenziale salvataggio in corner a fronte dei tambureggianti assalti delle 20 Marlboro al giorno che minavano i miei polmoni verso un irrefrenabile decadenza.

POCO PRIMA DI ARRIVARE AI RESTI DELLE MURA del chiostro incrociammo quelle che potevano essere come non potevano essere lapidi di Sant’uomini vissuti qui secoli fa, alla mercè di predoni, cavalieri, uomini d’arme e di commercio. Un attimo di rispettosa silenzio ed alzammo gli occhi a controllare dove fossero finiti i cani: fu allora che vedemmo il fantasma.

PER LE APPARIZIONI ULTRATERRENE e le esperienze mistiche di solito è il buio della notte a creare l’atmosfera giusta e più consona all’eccezionalità dell’evento, ma esiste comunque un ancestrale fascino segreto nella luce infuocata del sole che splende. In un cielo sgombro di nubi è la stessa mistica meraviglia che coglie viaggiatori d’ogni tempo ed ogni dove sperimentando i miraggi di esotici deserti e lande desolate. E quello spettro, quel miraggio tranquillamente appoggiato a quel che restava del pozzo nel chiostro del convento, ci fece un cenno. Negli occhi sbigottiti di Alice lessi la mia stessa identica e silente domanda: “Vedi anche tu quello che vedo io ?”

BRACCO E BALDO, ricomparsi da non so dove all’apparizione del fantasma, tenevano le orecchie basse e guaivano sommessi, a caricare ancor più la scena di un aura carica di mistero. Lo spettro sembrava impaziente, e continuava ad agitare quello che sembrava un bastone da pellegrino invitandoci a raggiungerlo, come se stesse aspettando da chissà quanto e fossimo giunti all’appuntamento in imperdonabile ritardo. E poi sorrise. Ancora oggi vorrei che non l’avesse mai fatto, ma lo fece.

QUALE ANIMO INQUIETO e tormentato poteva apparire nei dintorni di quell’amena località dell’alta Maremma, frequentata da un turismo discreto ma ancora al riparo, fotunatamente, dalla massa disordinata di vacanzieri maleducati ? Beceri e chiassosi, latori di un immancabile seguito parenti e di pupi, di suocere beneficiarie di pensione d’anzianitò a garanzia della partecipazione alle ferie della famiglia, carichi di tavoli da pic nic imbanditi a festa, ideatori ed interpreti di sesquipedali discorsi a coglione sul degrado morale e sociale della moderna società al quale in larga parte contribuivano con i loro costumi. Iddio ci scampi dalla loro invasione…

DAL CAPPUCCIO DEL SAIO DI UN TENEBROSO COLORE DELLA NOTTE, un teschio scarnificato sbucò con le orbite vuote e profonde come l’abisso a offendere la nostra tranquilla escursione. Dall’orrida fessura dove un tempo stava la bocca del frate, fecero capolino tre o quattro mozziconi di dente, marci e consunti dal tempo dalle malattie e dalla malnutrizione, fors’anche dai sacrileghi fendenti di decine e centinaia e migliaia di aguzzini. Predoni e corsari, infedeli eretici scorrazzanti per quelle terre e in quel tratto di mare tra Corsica e Toscana, dove la comunità cenobitica di Guglielmiti sopravvisse fino al alla prima metà del XVI secolo. Le sole galee della Repubblica di Pisa non erano sufficienti al controllo di ogni avamposto militare o religioso, la Santa Madre Chiesa tendeva a dimenticare chi viveva nella povertà insegnataci da Nostro Signore.

QUESTI ED ALTRI PENSIERI MI SI ACCAVALLARONO veloci nella mente a cercar di esorcizzare il presagio di una sorte già vista tante e tante volte nei miei incubi di adolescente. Un sibilo isterico che subito riconobbi come una risata fredda a guisa delle raffiche di tramontana che d’inverno entrano tra le imposte, mi gelò il sangue nelle vene: “Un classico – avrei potuto pensare comodamente seduto di fronte alla TV sorbendomi all’ennesima replica notturna de “La notte dei morti viventi” – Ci siamo: ed ora vediamo cosa succede…”.

RIMANEMMO SPIAZZATI nell’udire una nenìa affato aspra, e per questo più inquietante addirittura, provenire dal monaco o dal quel che restava di lui. Ovviamente la musica non c’era, solo il fruscio del vento di ponente ad attutire quei versi ambigui:

Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et omne benedictione…”

Mi chiesi che cosa c’entrassero queste parole sussurrate in tono baritonale con un’arcana maledizione medievale, dove avessi già ascoltato le rime del frate.

Ad te solo, Altissimo, se konfàno et nullu homo ène dignu te mentovare…”

Continuava a cantare come in preghiera, ma c’era qualcosa di familiare in quei versi declamati in un misto struggente di placida tristezza e letizia:

“Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui…”

IL VERSO COLPI’ CON LA FORZA DI UN MAGLIO e la memoria si accese d’improvviso. Anche Alice dovette provare lo stesso memento, perchè mi strinse forte l’avambraccio piantantomi le unghie nelle carni fin quasi al punto di farle sanguinare. Non sgorgavano dalle porte dell’inferno quelle parole, ne’ avevano a che fare con una qualche invocazione alle forze infernali che tanto ci aveva atterrito fin dall’apparizione dello spettro…

“IL CANTICO DELLE CREATURE”, San Francesco d’Assisi e la lode all’Altissimo e al Creato, tanto amati ed onorati per tutta la sua umile e proba esistenza…

Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore, de te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle, in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle…

CI AVVICINAMMO ALLA VISIONE che adesso appariva più eterea che mai nella suo apparente disastro. Continuando a cantare da un angolo del saio sbucarono le ossa di una mano a chiedere qualche cosa, l’incavo degli occhi assunse l’atteggiamento supplichevole di un questuante stremato. Trattenni a stento le lacrime che, lo intuii ancor prima di voltarmi a guardarla, già bagnavano copiose le guance della mia adorabile compagna.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dai sustentamento…”

Gli fummo accanto e notammo tra le ossa della mano un rosario di piccole pietre bianche, messo insieme da una corda di rustica canapa , operazione compiuta nel corso di mesi di paziente lavoro sottratto alle poche ore di sonno di una vita santa interamente dedicata al sostentamento della piccola comunità di San Quirico.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta, Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte…”

ALICE FU PIU’ PRONTA nell’intuire la richiesta del frate. Con un tocco leggero e appena accennato a non interrompere l’incanto del momento, mi fece voltare e pescò dallo zainetto che portavo in spalle gli ultimi due pacchetti di crackers che ci eravamo portati per uno spuntino nel bosco.

Esitante, allungò alla mano ancora protesa il pasto frugale, e il frate accettò i dono ghermendolo ma non interrompendo il canto.

“Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba…

Si alzò in un gracchiante frusciare di vesti, un contrasto con il sapore della laude tale da farci rabbrividire ancor di più, e girando le spalle si diresse verso il centro di ciò che restava delle mura del convento, quel pozzo che doveva essere il centro del chiostro e dove i monaci avevano passato tanto tempo in preghiera e a contemplazione del creato.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione…”

Sbriciolò i crackes, e mi parve che una sorta di sorriso apparisse sul teschio del fantasma. La suggestione talvolta gioca bruttissimi scherzi, ma un fagiano e la sua nidiata frullarono subito dal bosco ciangottando giulivi, riconoscenti ma incapaci di riconoscere la meraviglia nel gesto.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace, ka da te, Altissimo, sirano incoronati…”

La sera ormai stava calando sul promontorio e su quella portentosa giornata. I fagiani si erano ormai allontanati dalla radura rituffandosi nel fitto della macchia, e l’ombra del frate stava rivolta verso il tramondo come a contemplare un altro giorno che se ne andava:

Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare…” Un tiro mancino dell’inconscio, o sul teschio parve luccicare solitaria una lacrima ? Forse solo uno schizzo d’acqua del mare distante poche centinaia di metri, forse non ci fu addirittura nessun incontro in quel pomeriggio di tanti anni fa, nessuna portentosa apparizione e nessuna visione. Mi resi conto che Alice ed io eravamo soli nella radura ma nelle orecchie sentivo ancora sommessa la bassa voce del frate che scemava fino a scomparire del tutto e per sempre:“Laudate et benedicete mi’ Signore’ et ringratiate et serviateli cum grande humilitate”.

SI ERA FATTA ORA di rientrare, oramai. Discendemmo silenziosi verso la spiaggia in processione con Bracco e Baldo che trotterellavano svogliati lungo il sentiero, ignorando la macchia spesso fonte di incontri sorprendenti, incoerente e involontaria, forse, sottolineatura del portento di quel pomeriggio di tanti anni fa.

RIPENSAI A QUEI DUE cuccioli di cinghiale che ci avevano invitato con il loro richiamo. Fu un pensiero per niente rassicurante, finanche profetico, in un certo senso. Solo ora, ad anni di distanza ed innumerevoli esperienze aggiunte al bagaglio di fiero giovanotto nello sbocciare degli anni, me ne rendo pienamente conto. Fu un incubo, un sogno, una premonizione ? Qualunque cosa fosse stato, quel pomeriggio abbattè il mio personale e pragmatico concetto di realtà, basata sul fatto che una cosa è una cosa per come essa appare, punto e basta.

MA ALLORA I CONTI non tornavano per niente. Non quei giocherelloni dei nostri cani non erano botoli ringhiosi affamati di succulenta carne di cucciolo. I due cinghialotti potevano benissimo non essere quello che erano parsi, e il fantasma di un frate morto da chissà quanto di fame e di stenti, non ci aveva minimamente offeso, ci aveva anzi dato un’ennesima lezione.
DAL GOLFO DI BARATTI, tra il frinire stanco e infinito delle cicale, saliva ancora il cicaleccio delle signore in spiaggia. Legammo i cani per ulteriore prudenza e sbucammo sul bagnasciuga. La donna col pareo appoggiato sul seno se ne stava in disparte a fumare una cicca dopo l’altra, ansiosa di raggiungere un non ben precisato party allo “Yacht Club” di Punta Ala e ignorando le chiacchiere delle amiche che adesso parlavano delle scuole dei figli.

ABBIAMO ISCRITTO GIANGI al Politecnico, l’esame di ammissione c’è tra due settimane ma un tizio della commissione, poveraccio, si è rifatto la dentiera 6 mesi fa… La “protesi” l’ha chiamata… con quella miseria che guadagnano i precari, Giorgio non gli ha fatto tirar fuori una lira, e la settimana prossima porta la figlia minore per l’apparecchio”. Sembrava soddisfatta del broglio palese a tutto vantaggio di un figlio girellone, non ancora preoccupato del futuro certamente radioso e sicuramente lampadato e testadicazzo come la mamma. “La retta annuale è cara, lo so… Ma è una garanzia ! Chi vuoi che possa permettersi di pagare certe cifre ? 250 milioni per una laurea in 4 anni, se accetti il fuori corso magari puoi scendere un po’… I dottori del Politecnico son rari, cara mia…”.

INVECE DI URTARMI e offendermi, le atroci banalità e millanterie delle due fattucchiere mi davano un assurdo quando tranquillizante sollievo: al mondo esistevano sempre gli strafottenti, gli idioti e gli ignoranti, entro qualche anno sarebbero arrivate anche le rumorose famiglie di arricchiti, mi dissi. La realtà stava riprendendo il suo corso. In quel momento il concerto di grugniti dei due immateriali scherzi di natura riecheggiò nuovamente fra le balze, accompagnato dal borbottìo soddisfatto di una sazia famigliola di fagiani.

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